La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 20661/14 del 1 ottobre 2014 ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 77/2002, nella parte in cui, prevedendo il requisito della cittadinanza italiana, esclude i cittadini stranieri regolarmente soggiornanti nello Stato italiano dalla possibilità di essere ammessi a prestare il sevizio civile.

Giunge dunque a una svolta decisiva il lungo e controverso caso dell’apertura agli stranieri del servizio civile nazionale (si rimanda agli altri articoli presenti in questa sezione relativi alla vicenda in esame).

Questi i punti più rilevanti dell’ordinanza della Cassazione:

1) La Cassazione ha dovuto inevitabilmente constatare che la materia del contendere nel giudizio in esame era oggettivamente cessata: il ricorrente ha conseguito la cittadinanza italiana e dunque non è più interessato all’esito del giudizio. Il servizio civile 2013 è ultimato. La decisione, qualunque sia, è destinata a essere totalmente priva di effetti pratici per le parti in causa nel giudizio.

A fronte di ciò la Cassazione, sollecitata in tal senso anche dalla Procura Generale, ha scelto di avvalersi dell’art. 363 c.p.c. a norma del quale la Corte può emettere comunque una sentenza al solo fine di “enunciare il principio di diritto” anche se il ricorso è tardivo o inammissibile con l’ulteriore precisazione : “il principio di diritto può essere pronunciato dalla Corte anche d’ufficio quando il ricorso proposto dalle parti è dichiarato inammissibile se la Corte ritiene che la questione decisa è di particolare importanza”.

La Corte ha ritenuto che la questione posta da ASGI e APN sia “di particolare importanza” (e di ciò non ci si può che rallegrare) e che pertanto, pur essendo venuta meno la materia del contendere, il giudizio debba comunque procedere al fine di pervenire alla “enunciazione del principio di diritto”. E proprio ai fini di tale enunciazione, la Corte ritiene debba essere previamente risolta la questione di non poter fare applicazione dell’art. 3 d.lgs. 77 cit., trattandosi appunto di norma incostituzionale.

La Corte Costituzionale dovrà ora valutare previamente se la questione posta dal giudice ordinario è “rilevante” ai fini della decisione che questi è chiamato ad assumere. Il dubbio che sorge immediatamente è dunque se la Consulta potrà valutare diversamente dalle Sezioni Unite e dunque ritenere che l’art. 363 c.p.c. non sia applicabile e che la Cassazione abbia sollevato una questione “inesistente”, dovendosi quel processo considerare concluso con l’esaurirsi della vicenda storica che vi aveva dato origine.
Di per sé la valutazione in ordine alla “particolare rilevanza della questione” e conseguentemente alla necessità di enunciare comunque il principio di diritto nell’interesse della legge, è una valutazione riservata alla Cassazione e dunque la Corte Costituzionale dovrebbe limitarsi a prenderne atto e procedere alla decisione di costituzionalità/incostituzionalità.
Tuttavia non vi è dubbio che situazione venutasi a creare – in ordine alla quale non constano precedenti – apre strade del tutto nuove: in fondo, una pronuncia della Consulta strumentale alla mera enunciazione del principio di diritto e non alla soluzione del caso concreto, non è poi cosa tanto lontana da un investimento diretto della Consulta da parte del privato cittadino che chieda un pronunciamento, pur in assenza di un giudizio pendente: una prospettiva, come noto, ignorata dall’originario costituente, ma ora, da molte parti, avanzata e da altrettante parti avversata.

E’ facile immaginare che lo scenario che si viene così a delineare susciterà forte opposizioni, il che potrebbe esporre la vicenda al rischio di una pronuncia di inammissibilità, con conseguente restituzione della questione nelle mani della Cassazione.
A tale pronuncia conseguirebbe inevitabilmente (stante il tenore dell’ordinanza in esame) una decisione della Cassazione di cessazione della materia del contendere e la palla tornerebbe allora ai giudici del bando successivo, con la conseguenza che – essendo i tempi dei tre gradi di giudizio inevitabilmente più lunghi di quelli del servizio – la Cassazione non potrebbe mai pronunciarsi sulla questione.

2) Vi è poi un altro aspetto di ordine processuale, che acquista anch’esso grande rilievo per il futuro del contenzioso antidiscriminatorio. L’intera vicenda sorge infatti da un giudizio ex art. 4 d.lgs. 215/03 (ora art. 28 d.lgs. 150/11) ed ha superato i tre gradi di giudizio, giungendo ora alle porte della Consulta, senza che sia mai sorta questione:

a) in ordine alla legittimazione attiva delle associazioni (così spesso contestata dai convenuti);

b) in ordine alla rilevanza della discriminazione collettiva (anzi la Corte considera espressamente che la posta in gioco nel giudizio originario non era la sola posizione del cittadino pakistano, ma quella di tutti i giovani candidati);

c) in ordine alla possibilità di sollevare, nell’ambito del giudizio antidiscriminatorio (che molti vorrebbero confinare nel ristretto ambito dei comportamenti materiali, escludendo qualsiasi attività amministrativa) questioni di disapplicazione o di illegittimità costituzionale delle norme.

Anzi, il rinvio della Corte conferma definitivamente (se ce ne fosse ancora bisogno) che un atto amministrativo emanato in ottemperanza a una norma di legge può costituire discriminazione, se poi la norma di legge si rivela incostituzionale o da disapplicare (ad es. perché in contrasto con una direttiva).

3) Venendo ora ai “punti fermi” di cui si diceva, la Corte liquida rapidamente la possibilità di dare un’interpretazione “costituzionalmente orientata” della parola “cittadini italiani” contenuta nell’art. 3, comma 1, d.lgs. 77/02 in quanto l’interpretazione adeguatrice “non può essere condotta oltre i limiti estremi segnati dall’univoco tenore della norma interpretata”. Ma proprio l’asserita inammissibilità di tale interpretazione introduce la parte più interessante della ordinanza, laddove la Corte argomenta l’eccezione d’incostituzionalità.
In primo luogo la Corte spazza via il sospetto – ripetutamente avanzato dall’Avvocatura dello Stato e talvolta anche da associazioni dei volontari – che un’apertura agli stranieri possa ridurre il servizio civile a una sorta di lavoro socialmente utile, svilendo la sua originaria vocazione di “difesa non armata”.

Non è così. Il servizio civile si colloca pienamente all’interno dell’art. 52 Cost., ma il dovere di difesa della patria “letto nell’ambito e in connessione con l’art. 2, ha assunto nuove potenzialità semantiche” tanto da spingere la Corte a dare del servizio civile una definizione davvero pregevole: esso “permette di partecipare in modo attivo alla costruzione di una democrazia sana e di nuove forme di cittadinanza; consente di colmare il divario creatosi tra i bisogni collettivi e le risorse pubbliche, in un’ottica di promozione dei diritti…costituisce istituto di integrazione, inclusione e coesione sociale…” e così via.

Dunque non perché “svalutato” a mera prestazione lavorativa, ma – all’opposto – proprio perché carico dei citati valori, il servizio civile resta collocato in quella sfera di diritti di particolare rilievo per i quali sono ammesse, tra italiani e stranieri, soltanto distinzioni proporzionate e ragionevoli (le Sezioni Unite, pur senza dichiarare espressamente la riconduzione del servizio civile ai diritti fondamentali della persona, fanno a questi riferimento al punto 6.1.).
Ebbene la distinzione in questione è “non proporzionata né ragionevole” (punto 6.2.) come peraltro già recentemente riconosciuto dalla Corte Costituzionale se pure con riferimento al servizio civile regionale (Corte Cost. 309/2013).
Secondo la Corte “l’esclusione … preclude allo straniero il pieno sviluppo della sua persona e l’integrazione nella comunità di accoglienza, impedendogli di concorrere a realizzare progetti di utilità sociale… e, di conseguenza, di sviluppare il valore del servizio a favore degli altri e del bene comune come componente essenziale di vita e come forma di educazione ai valori della Repubblica”

Il valore dello “stare insieme” in modo solidale è il senso profondo dell’art. 2: impedire a taluno, solo in ragione della mancanza di status civitatis, di cooperare a questo “stare insieme” è irragionevole e viola il principio di uguaglianza.

Questi due articoli, l’articolo 3 e l’articolo 2 della Costituzione devono leggersi in collegamento: il divieto è discriminatorio perché “preclude al non-cittadino regolarmente soggiornante in Italia la possibilità di un pieno dispiegamento della libertà e dell’uguaglianza, da intendersi anche quale veicolo di appartenenza in senso etico dello stare insieme nella nostra comunità, di accoglienza e di costruzione dei rapporti sociali e dei legami tra le persone in una prospettiva di solidarietà, di pace e di apertura al confronto nell’ambito di una convivenza pluralistica”.
Difficile trovare parole più significative per indicare il percorso dell’ordinamento verso quel “pieno dispiegamento” così spesso ignorato dalla politica.

Nel passaggio finale le Sezioni Unite devono inevitabilmente chiedersi se, all’opposto di quanto sin qui ipotizzato, non sia proprio la Carta Costituzionale ad imporre, con l’art. 52 Cost., la riserva ai soli cittadini del compito di difesa.
La risposta è nettissima: “la portata normativa della disposizione costituzionale è quella di stabilire in positivo, non già di circoscrivere in negativo i limiti soggettivi del dovere costituzionale”; come dire che nessun cittadino può essere esentato dalla leva, senza che ciò significhi che lo straniero deve esserne escluso.
Ma apre soprattutto a una nuova concezione della cittadinanza. “La partecipazione dello straniero regolarmente soggiornante ad una comunità di diritti più ampia e comprensiva di quella fondata sulla cittadinanza in senso stretto, postula che anch’egli, senza discriminazione in ragione del criterio della nazionalità, sia legittimato, su base volontaria, a restituire un impegno di servizio a favore di quella stessa comunità, sperimentando le potenzialità inclusive che nascono dalla dimensione solidale e responsabile dell’azione a favore degli altri e a difesa dei valori inscritti nella carta repubblicana “ (punto 6.2.1.).
Evidente la rilevanza di questa sorta di “cittadinanza di residenza” che viene qui delineata (come già, forse con ancora maggior decisione, dallasentenza della Corte Costituzionale 172/99) ma evidente soprattutto il fatto che questa interpretazione dell’art. 52 Cost. –proveniente dal più alto organo della magistratura ordinaria – toglie qualsiasi alibi all’attuale governo: indipendentemente dall’esito di questo giudizio, ciò che è ormai pacifico è che il legislatore non ha alcun vincolo costituzionale ad escludendum; secondo quanto ipotizzato dalla Cassazione, il legislatore ordinario non può escludere gli stranieri (lo deciderà la Consulta); certamente li può includere ed è dunque il momento – dopo le ripetute dichiarazioni degli ultimi due ministri circa il “vorrei ma non posso” – di operare una scelta chiara sul punto.

Infine da segnalare anche l’ulteriore profilo di incostituzionalità rilevato, quello cioè dell’eccesso di delega (con conseguente violazione dell’art. 76 Cost.) basato sul rilievo che la legge delega faceva riferimento ai “cittadini” solo nella parte in cui si riferiva al periodo transitorio e residuo di leva obbligatoria, il che fa presumere a contrario che, cessato il periodo transitorio, la stessa legge delega, pur demandando al legislatore delegato il compito di individuare i requisiti di ammissione, non intendesse affatto consentirle anche la esclusione degli stranieri.
Anche su questo profilo dovrà ora pronunciarsi la consulta.

Nel frattempo, è stato emanato il bando per il 2015 che include oltre ai cittadini italiani, i cittadini dell’Unione europea, i familiari dei cittadini dell’Unione europea non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, i titolari del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo; i titolari di permesso di soggiorno per asilo e i titolari di permesso per protezione sussidiaria.

Corte di Cassazione, 1 ottobre 2014 (ord.), pres. Rovelli rel. Giusti, Presidenza del Consiglio dei Ministri (Avvocatura generale dello Stato) c. ASGI, APN, Syed (avv.ti Guariso e Gigliola)

 

 

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