(Il presente articolo contiene alcune prime osservazioni a commento delle innovazioni processuali introdotte dalla L. 92/12 per quanto riguarda il nuovo “processo sul licenziamento” che troverà applicazione a tutti i procedimenti avviati dal 18.4.2012; l’articolo comparirà sul numero 2/12 di Rivista Critica di Diritto del Lavoro.

Nella pagina “news” del sito trovate la trascrizione degli articoli di legge contenenti le novità processuali -commi da 47 a 68 dell’art. 1-e una scheda pratica riassuntiva)

1. Perché un nuovo rito speciale ?
Che vi sia una stretta relazione tra regime sostanziale applicabile al licenziamento e regime processuale è una constatazione ormai molto risalente e sulla quale tutti concordano: un regime che preveda la reintegrazione,  ma non si curi che la decisione arrivi in un tempo tale da renderla effettivamente fruibile per il dipendente e accettabile per il datore di lavoro è un regime illogico, dannoso per imprese e lavoratori.
Non a caso il l’antenato  più prossimo del nuovo processo di cui stiamo parlando lo troviamo nella relazione finale della Commissione Foglia istituita nel 2000 per lo studio e la revisione del processo del lavoro , il cui intervento riformatore partiva, tra l’altro, “dalla constatazione che la lunghezza del rito del lavoro si pone con accenti di speciale gravità allorché la controversia ha ad oggetto aspetti essenziali del rapporto di lavoro, con particolare riferimento (…) alle questioni in materia di licenziamento” e, conseguentemente  “dalla necessità di individuare meccanismi processuali di urgenza per la definizione delle controversie di lavoro in materia di trasferimenti e licenziamenti” (cfr. la sintesi della Relazione della suddetta Commissione).
Sennonchè nella ipotesi di allora la predisposizione di un processo “speciale” in materia di licenziamenti (e trasferimenti)  nasceva proprio a tutela della reintegrazione, della quale non si ipotizzava affatto la rimozione:  si pensava cioè a un processo rapido proprio perché in gioco c’era la ripresa di un rapporto.
Ora invece la stessa idea viene ripescata proprio quando la reintegrazione, pur non abolita, perde gran parte della sua rilevanza nel panorama delle sanzioni e per di più dopo che l’introduzione dei termini decadenza di cui alla L. 183/11 (ora ulteriormente ridotti) aveva già notevolmente ridotto il rischio di decisioni troppo differite nel tempo. Il che rende la modifica legislativa assai meno giustificabile.
Un secondo interrogativo sulla tempestività e coerenza dell’intervento nasce dal rapporto con il decreto taglia-riti (dlgs 150/11) con il quale  il legislatore aveva optato –  e la scelta era assolutamente apprezzabile – per un riordino della materia  processuale riducendo drasticamente i riti processuali a tre: rito ordinario di cognizione, rito sommario di cognizione, rito del lavoro.
Uno di questi riti –  quello sommario di cognizione di cui all’art. 702bis c.p.c. –  era stato scelto come strumento principe per le questioni che afferiscono diritti fondamentali della persona: il processo antidiscriminatorio, il riconoscimento dello status di rifugiato politico, l’impugnazione di espulsioni del cittadino extracomunitario e di allontanamento del cittadino comunitario, i provvedimenti in materia di unità familiare. Ciò evidentemente sul presupposto che quella forma processuale fosse la più efficace per garantire, conciliandole, le esigenze del contraddittorio con quelle di tempestività del provvedimento finale.
A soli otto mesi di distanza da quella scelta, si riapre ora la  spasmodica ricerca del rito perfetto, modellato ad hoc sulla singola questione sostanziale,  con nuovi rischi di moltiplicazione  (non vi sono forse nell’ordinamento altri diritti che ambiscono a una tutela più rapida ed efficace di quella offerta dal rito sommario di cognizione ?) .
Non solo: proprio il rapporto con la precedente opera di “razionalizzazione” solleva un ulteriore interrogativo.
Come è noto nel nostro ordinamento la tutela tempestiva dei diritti ritenuti di maggiore rilievo (potremmo chiamarli per semplicità “a tutela rafforzata”)  è affidata alternativamente a tre schemi processuali distinti: da un lato lo schema “ricorso – decreto – opposizione davanti il medesimo Tribunale – instaurazione del giudizio ordinario – appello” (è lo schema utilizzato dall’art. 28 L. 300/70 e dal processo antidiscrimiatorio per ragioni di genere ex artt. 37 e 38 Codice Pari Opportunità); dall’altro lo schema  “ricorso – ordinanza – reclamo davanti al giudice collegiale – eventuale introduzione del giudizio di merito”: è questo lo schema utilizzato dal procedimento cautelare uniforme ex art. 669-bis c.p.c. e dalla azione civile contro la discriminazione (non di genere) sino alle modifiche di cui al dlgs 150/11.
Quest’ultima riforma ha assunto e generalizzato a tutti i processi “veloci” la terza via offerta dall’art. 702bis c.p.c. e già introdotta nell’ordinamento, se pure in via facoltativa, dal luglio 2009:  “ricorso – ordinanza – appello”.
Ora,  sarebbe bene che il legislatore decidesse una buona volta se lo schema processuale più funzionale ad azionare in giudizio i diritti “a tutela rafforzata” sia il primo, il secondo o il terzo.
Otto mesi fa, con piglio decisionista , ha stabilito che  la formula ottimale era la terza.  Alla prima occasione in cui ha rimesso mano a una questione processuale, ha deciso invece esattamente l’opposto e cioè che la formula migliore è la prima.
E infatti, come si rileva dallo schema qui sopra la prima fase del giudizio sul licenziamento si conclude con ordinanza, con il risultato che la tutela contro i licenziamenti, la tutela contro il comportamento antisindacale e all’azione urgente contro le discriminazioni di genere restano  le uniche azioni relative a diritti “a tutela rafforzata” che  non seguono lo schema dell’art. 702bis cpc.
Non si tratta naturalmente soltanto di una questione di razionalità e coerenza del sistema (che non è irrilevante, ma, detta così, potrebbe appassionare soltanto i teorici del diritto processuale)  ma di individuazione della strada più efficace, che non può variare, a parità di rilevanza dei diritti lesi, a seconda della materia.
Tanto più che , per quanto riguarda lo svolgimento del processo, tutti e tre i riti attingono alla medesima formula:  “il giudice, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione ammissibili e rilevanti…”  . La prescrizione è la medesima nell’art. 702ter , 5^ comma c.p.c.  (processo sommario di cognizione); nell’art. 669sexties c.p.c. (procedimento cautelare uniforme);  nell’art.  1, comma 49 L. 92/12 (licenziamento).  Se dunque il cuore del processo si svolge secondo le medesime regole non si vede perché la fase introduttiva e di impugnazione e la stessa struttura del processo debba seguire regole così diverse.

2. Processo antidiscriminatorio e processo sul licenziamento
2.A. L’incertezza nella scelta legislativa si traduce poi, inevitabilmente, in inutili complicazioni nell’avvio del processo.
Le principali riguardano il rapporto tra processo antidiscriminatorio e processo sul licenziamento.
Consideriamo alcuni casi “di scuola”: la lavoratrice licenziata perché si ostina a portare il velo nonostante il divieto imposto dal datore di lavoro; il lavoratore licenziato perché ritenuto troppo anziano in relazione alle esigenze di innovazione dell’azienda; il lavoratore licenziato dalla scuola di orientamento cattolico perché convivente con una persona dello stesso sesso.
Scorrendo un codice del lavoro i nostri tre constateranno che il divieto di discriminazione per il fattore che a ciascuno interessa (religione, età , orientamento sessuale, ma lo stesso sarebbe per disabilità e convinzioni personali) è contenuto nell’art. 2  dlgs 216/03 e leggeranno all’art. 4 di detto Dlgs che “La tutela giurisdizionale avverso gli atti e i comportamenti di cui all’articolo 2”  si svolge obbligatoriamente nelle forme previste dall’art. 28 Dlgs 150/11, cioè secondo il procedimento ex art. 702bis c.p.c. (sino all’ottobre scorso nelle forme di cui all’art.  44 TU immigrazione, ma questa è ormai storia passata).
Ma al contempo leggeranno che la domanda di impugnazione del licenziamento, nelle ipotesi regolate dall’art. 18 L. 300/70 (e dunque, per effetto del richiamo all’art. 3 L. 108/90 contenuto nel comma 42,  anche nei casi di licenziamento discriminatorio per ragioni di religione, di età, di orientamento sessuale)  deve essere proposta nelle forme previste dai commi 48 – 68 dell’art. 1 L. 92/12, che – come abbiamo visto – sono diverse da quelle del processo antidiscriminatorio.
In parole povere: il processo contro il licenziamento discriminatorio e il processo contro la discriminazione costituita dal licenziamento, seguono regole diverse.
Come venirne a capo ?
E’ da escludere che possa trovare applicazione il principio secondo il quale l’atto può avere una duplice valenza,  purchè rivesta i requisiti di forma e di sostanza di entrambe le procedure invocate: qui un procedimento è soggetto ad appello l’altro a opposizione e dunque una strada va scelta, pena la nullità dell’atto introduttivo, che non metterebbe l’avversario in condizione di sapere a quale delle due regole attenersi, con evidente violazione del principio del contraddittorio.
Si potrebbe ipotizzare che la procedura sui licenziamenti costituisca norma speciale rispetto alla norma “generale” prevista per gli atti discriminatori e che dunque prevalga la prima; ma si potrebbe dire, al contrario, che è l’art. 4 dlgs 216/03 a costituire norma speciale perché riguarda i soli casi di discriminazione ivi indicati, laddove invece il rito speciale è previsto per tutti i casi di applicabilità dell’art. 18 SL, anche qualora non coinvolgano questioni di discriminazione.
Una analoga problematica si è già posta in occasione dell’azione promossa dalla FIOM nei confronti della FIAT avanti il Tribunale di Roma e conclusa con l’ordinanza 21.6.2012:  un’azione promossa con il rito antidiscriminatorio facendo valere il divieto di discriminazione per convinzioni personali ex dlgs 216/03, ma  che ha dovuto superare (e ha superato con successo) l’eccezione della convenuta che riteneva inammissibile azionare come discriminazione per convinzioni personali e dunque con la procedura ex art. 28 Dlgs 150/11 una discriminazione sindacale che dovrebbe invece (ad avviso della FIAT) essere azionata con il procedimento per comportamento antisindacale (che come si è visto è strutturato in modo analogo a quello sui licenziamenti) .
L’unica soluzione plausibile è dunque che (come infatti ritenuto dal Tribunale di Roma nell’ordinanza citata) entrambi i riti siano a disposizione del lavoratore, restando tuttavia il rammarico per il fatto che la mancata unificazione dei due (e il mantenimento di due diversi sistemi di impugnazione) impedisca di attivare con un unico atto entrambi i procedimenti e formulare entrambe le prospettazioni.

2.B. Se dunque le strade sono due, quale scegliere ?
Per il ricorrente la scelta dovrà essere frutto di attenta ponderazione, posto che entrambe le strade presentano possibili vantaggi.
Azionando l’art. 28 Dlgs 150/11  il lavoratore potrà infatti :
– far valere la competenza territoriale del luogo del proprio domicilio;
– ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale, con maggiorazione qualora si tratti di licenziamento ritorsivo
– beneficiare di un  più ampio potere del giudice nell’assumere ogni provvedimento “idoneo a rimuovere gli effetti della discriminazione”, ivi compreso il piano di rimozione;
– beneficiare , in caso di discriminazioni collettive, della legittimazione attiva degli enti e associazioni “rappresentative del diritto e dell’interesse leso” (formula amplissima usata dall’art. 4 dlgs 216/03) , cosa che certamente non può accadere nel caso di una ordinaria azione ex art. 18 L. 300/70;
– accelerare la definizione completa dei gradi di giudizio che nel processo antidiscriminatorio sono 3, in quello sul licenziamento sono sostanzialmente 4 (ovviamente che si tratti o meno di un vantaggio dipende dal grado di incertezza sull’esito);
– cumulare in giudizio (ma il punto è dubbio)  anche domande diverse da quelle inerenti la discriminazione, avvalendosi dell’art. 40, 4^ comma, cpc (che disciplina l’ipotesi di concorso di più riti speciali, come sarebbe in questo caso il rito del lavoro e il rito antidiscrimintorio) laddove invece nel comma 51, art. 1 L. 92, questa possibilità – come vedremo subito – è rigorosamente vietata.
Per altro verso la scelta del rito sommario di cognizione ex art. 28 Dlgs 150/11 , presenta per il lavoratore non irrisori svantaggi, in particolare:
– potrà ottenere  un ordine di riammissione in servizio come effetto della rimozione della discriminazione, ma non l’applicazione diretta dell’art. 18 SL precludendosi così la possibilità della opzione per le 15 mensilità (salvo che l’applicazione dell’art. 18 non possa farsi rientrare nei provvedimenti che il Giudice deve adottare al fine di rimuovere la discriminazione);
– incorrerà (forse) in un regime di maggiori preclusioni:  l’atto introduttivo ex art. 28 dlgs 150 deve infatti contenere gli elementi di cui all’art. 163 c.p.c. (e dunque anche le istanze istruttorie) mentre , l’atto introduttivo ex art. 1, comma 48 L. 92/12  deve avere soltanto i più generici requisiti di cui all’art. 125 c.p.c. (che non fa alcun riferimento ai mezzi istruttori).
Non resta che operare una attenta scelta caso per caso, restando però inspiegabile perché, in presenza di una identica allegazione posta a fondamento del giudizio (il licenziamento ha violato il divieto di discriminazione di cui all’art. 15 SL, richiamato dall’art. 3 L. 108/90) il lavoratore debba  arrovellarsi sulla scelta tra due riti diversi.

3. La prima fase del giudizio.
3.A. Una ulteriore discutibile anomalia nasce dalla difficoltà di individuare esattamente la funzione dei primi due gradi di giudizio, che presentano evidenti rischi di duplicazione.
Sino ad ora lo schema “decreto-opposizione” era stato utilizzato (nell’art. 28 SL e nell’art. 37 CPO) per introdurre nella seconda fase un giudizio ordinario in piena regola.
Qui le due fasi appaiono invece molto simili. Anche nella fase di opposizione infatti non trova applicazione l’art. 420 c.p.c.,  ma il cuore del processo si svolge secondo le modalità di cui abbiamo detto : “il giudice sentite le parti,  omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio…” . Tutto uguale dunque ?
No, qualche differenza che da senso alla duplicazione si può individuare.
Il dato più banale, ma di più immediata evidenza è l’ulteriore accelerazione che subisce la prima fase mediante una scansione temporale più ridotta rispetto alla fase di opposizione. Nella prima fase : udienza entro 40 giorni dal deposito del ricorso , notifica entro i 25 giorni antecedenti l’udienza, costituzione del convenuto 5 giorni prima. Nella fase di opposizione: udienza entro 60 giorni, notifica entro i 30 antecedenti l’udienza, costituzione del convenuto 10 giorni prima.
Fin qui però si tratterebbe di differenze modestissime,  soprattutto alla luce del fatto che il termine più rilevante (quello entro il quale si deve tenere l’udienza) è, al solito, meramente indicativo e ha scarsissime possibilità di essere rispettato: si vedano in proposito le perplessità avanzate dalla Commissione Bilancio del Senato sull’adeguatezza delle risorse umane e strumentali dell’amministrazione giudiziaria “a fronte del prevedibile incremento del fabbisogno che deriverà dalle norme in esame” e dal Consiglio Superiore della Magistratura che, nell’esprimere un parere sul testo approvato dal Consiglio dei Ministri, ha sottolineato :“l’impari rapporto tra risorse materiali ed umane disponibili-non ultimo il personale di cancelleria il cui reclutamento è fermo dal 1995- e la domanda di giustizia nel settore che fa sì che la creazione di un nuovo modello processuale non possa ex se assicurare al cittadino l’erogazione del servizio giustizia in tempi ragionevoli”.
Un secondo dato di immediata evidenza è che, nella prima fase, non sono ammesse né domande riconvenzionali, né chiamate di terzi, che invece sono ammesse nella fase di opposizione.
Termini e chiamate a parte, il punto cruciale è l’individuazione della vera natura della prima fase di giudizio.
Va detto subito che, diversamente da quanto potrebbe apparire a una prima lettura, non si tratta di una fase cautelare, né di una fase a cognizione sommaria, quanto piuttosto di una fase a cognizione piena, o,  al più,  semi-piena (secondo una categoria entrata ormai nell’uso corrente).
Quanto al primo punto è evidente che la fase non presuppone affatto l’esistenza di un periculum trattandosi piuttosto della forma ordinaria che l’ordinamento offre (e impone) a chiunque intenda impugnare giudizialmente un licenziamento regolato dall’art.18 SL. D’altra parte l’ordinanza conclusiva della prima fase può ben essere una ordinanza di mera condanna al pagamento dell’indennizzo (la speciale procedura si applica infatti anche ai licenziamenti economici)  rispetto al quale tradizionalmente non vengono ammesse procedure cautelari.
Nulla dovrà quindi essere dedotto in ordine alla sussistenza di un periculum nell’atto introduttivo, che – come si è detto – dovrà contenere soltanto gli elementi di cui all’art. 125 c.p.c.: ufficio giudiziario,  parti, oggetto,  ragioni della domanda,  conclusioni, sottoscrizione del difensore e  codice fiscale di questi.
Come già accennato, non sussistono dunque preclusioni per quanto riguarda   istanze istruttorie e produzioni documentali, essendo la fase informata a una grande speditezza e informalità: in ciò, dunque, la prima differenza con la fase di opposizione, dove invece tornano ad applicarsi le preclusioni classiche del rito del lavoro.
Ciò non significa ovviamente che la prima fase sia a totale impulso d’ufficio: il Giudice infatti procede soltanto agli “atti di istruzione indispensabili richiesi dalle parti” (che dunque dovranno ovviamente proporre, eventualmente anche in udienza, le rispettive istanze) “o disposti d’ufficio ai sensi dell’art. 421 c.p.c.” (ma  come noto la norma conferisce al giudice del lavoro un potere molto ampio, con esclusione dalle prove ammissibili d’ufficio del solo giuramento decisorio: la prassi giudiziaria, come noto, fa però di questo articolo un uso abbastanza moderato).

3.B. Quanto all’ampiezza della cognizione, si è detto che trattasi di cognizione piena o semi-piena sicchè il ricorso non potrà essere rigettato – nella prima fase – soltanto perché le questioni impongono una indagine istruttoria complessa: questa può essere incompatibile con un giudizio cautelare, ma non è affatto incompatibile con il giudizio in esame.
Paiono decisive, in proposito,  due considerazioni.
a) La prima è che la domanda sul licenziamento deve essere proposta con il rito speciale anche quando “devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro” (cfr. comma 47):   dunque anche nel caso occorra accertare – ad esempio – se un rapporto apparentemente di collaborazione deve essere in realtà qualificato come rapporto di lavoro subordinato.
Ovviamente una simile questione non potrebbe mai essere risolta in favore del ricorrente a seguito di una cognizione sommaria, sicchè occorrerebbe dedurne che il legislatore ha costruito una fase processuale destinata inevitabilmente a concludersi con il rigetto del ricorso, ma indispensabile a dare ingresso alla fase ordinaria: il che confligge con evidenti esigenze di giustizia e razionalità.
b) La seconda e forse più rilevante considerazione è che la “misura” della cognizione è dettata dalla ormai nota formula (“sentite le parti e omessa ogni formalità non essenziale al contradditorio procede nel modo che ritiene più opportuno ….e provvede con ordinanza…”) ma tale formula non coincide affatto, né sul piano letterale, né sul piano logico,  con una cognizione sommaria. Ne è prova decisiva sia il fatto che identica formula è ripetuta  nel giudizio di opposizione (che è certamente un giudizio a cognizione piena) sia il fatto che la medesima formula è utilizzata dall’art. 702-ter per il “giudizio sommario di cognizione”.
Orbene quest’ultimo, a dispetto della sua denominazione (che peraltro, non a caso, è quella di “processo sommario di cognizione” e non “processo di cognizione sommaria”) poteva forse essere considerato a cognizione sommaria sino a che vigeva la norma di cui all’art. 702ter terzo comma cpc, secondo la quale il Giudice “se ritiene che le difese svolte dalle parti richiedano una istruzione non sommaria” dispone la trasformazione del rito in rito ordinario.
Ma le cose sono radicalmente mutate con il dlgs 150/11, in forza del quale il procedimento sommario di cognizione, pur restando fondato sulla medesima procedura, è divenuto la forma obbligatoria di accesso alla giustizia per la tutela delle rilevantissime materie già prima elencate (discriminazione, espulsione dello straniero ecc.) senza possibilità di utilizzare il giudizio di cognizione ordinario: sicchè non è ipotizzabile – pena evidenti sospetti di incostituzionalità – che l’ordinamento abbia inteso negare per  queste materie un primo grado di giudizio a cognizione piena.
Se ne deve concludere che  la “formula magica” di cui si è detto – pur essendo utilizzata già nella riforma del 1990 (L. 353/90) anche per il procedimento cautelare uniforme (cfr. art. 669-sexties cpc) – corrisponde ormai, al di fuori di quel contesto,  a una cognizione piena, con la conseguenza che il Giudice dovrà dare ingresso nel procedimento a qualsiasi atto di istruzione sia ritenuto “indispensabile” alla definizione del giudizio.
Da questo punto di vista non vi è dubbio che si prospetti l’elevato rischio di una duplicazione, ma ciò costituisce appunto un vizio della riforma, cui dovrà semmai mettere mano nuovamente il legislatore, ma che non può trasformare la prima fase in una sorta di fase cautelare a cognizione sommaria.

4. La fase di opposizione e quella di reclamo.
4.A. La prima fase si conclude con ordinanza immediatamente esecutiva. Non vi è dunque più la lettura del dispositivo in udienza, ma il deposito successivo in cancelleria, per il quale – curiosamente – non vengono fissati termini: e gli avvocati ben sanno quanto a lungo di protraggano talvolta le attese di “scioglimento della riserva”.
Contro l’ordinanza di accoglimento o di rigetto è ammessa opposizione entro trenta giorni dalla notificazione o comunicazione (il termine decorre dal primo dei due atti e decorre anche in riferimento alla sola comunicazione telematica).
L’ipotesi della opposizione avverso l’ordinanza di  rigetto è espressamente indicata,  risolvendo cosi i dubbi che talune Corti hanno sollevato con riferimento all’art. 702-quater c.p.c. circa la ammissibilità dell’appello avverso i provvedimenti di rigetto emessi nell’ambito del processo sommario di cognizione.
La norma non contiene una disposizione identica a quella di cui al primo comma art. 702-quater (“L’ordinanza …..produce gli effetti di cui all’art. 2909 c.c. se non è appellata entro trenta giorni..:”) e vi è dunque inevitabilmente da chiedersi se l’ordinanza in questione (di accoglimento o di rigetto) sia idonea a passare in giudicato e precludere qualsiasi ulteriore sviluppo del giudizio; oppure se le parti possano successivamente introdurre – come accade nel procedimento cautelare uniforme – giudizio ordinario ex art. 414 c.p.c., con le modalità previste dai commi 51 e segg., salvo soltanto il rispetto dei termini di decadenza di cui all’art. 32 L. 183/00.
La risposta più coerente con il nuovo sistema sembrerebbe la prima, posto che il comma 48 non lascia spazio a una azione di impugnazione del licenziamento proposta in forme diverse e dunque “saltando” la prima fase del giudizio: dunque risulterebbe anomalo che, a fronte di una ordinanza di rigetto non opposta, il lavoratore possa comunque proporre successivamente una azione ordinaria.
Ma la scelta della forma dell’ordinanza e, soprattutto, la mancata reiterazione di una formula come quella dell’art. 702-quater cpc potrebbe far propendere per la seconda risposta.
Rilevante in proposito è anche la considerazione che nella seconda fase del giudizio possono essere presenti soggetti ai quali invece è sostanzialmente “impedita” la partecipazione alla prima fase:  soggetti “rispetto ai quali la causa è comune” o “dai quali si intende essere garantiti” ; soggetti cui la causa deve essere estesa sussistendo litisconsorzio necessario o facoltativo.
I commi relativi a tali estensioni (51, 53, 54) sono riferiti alla sola fase di opposizione e dunque pare sicuro che nella prima fase il Giudice debba omettere qualsiasi valutazione in ordine alla sussistenza (tra l’altro) di un litisconsorzio necessario:  il che  sembrerebbe allora far propendere per l’inammissibilità del passaggio in giudicato della decisione, non essendo ipotizzabile che una decisone “che non può pronunciarsi se non nei confronti di più parti” (art. 102 c.p.c.) possa diventare definitiva benchè assunta nei confronti di una sola parte.

4.B. Quanto alle domande riconvenzionali (anch’esse senz’altro precluse nella prima fase)  il regime è molto  rigido, essendo ammesse solo qualora fondate su fatti costitutivi identici a quelli posti a base della domanda principale: in mancanza di “identità” il giudice dispone la separazione delle cause.
La  fase istruttoria viene poi affrontata guidati dall’ormai nota formuletta, ma questa volta gli atti di istruzione ammessi non sono più quelli “indispensabili”,  come nella prima fase, ma quelli “ammissibili e rilevanti” a conferma che nella fase di opposizione vigono le preclusioni ordinarie del rito del lavoro che ben possono  far concludere per la non ammissibilità di istanze istruttorie non ritualmente proposte con il ricorso introduttivo.
Assegnato infine eventuale termine per note, la fase si conclude con sentenza, che deve essere depositata in cancelleria entro 10 giorni dall’udienza di discussione: la previsione del comma 57 sembra sostituirsi integralmente, nei limiti della materia disciplinata,  all’art. 429 c.p.c. sicchè per il “rito sul licenziamento” non sembra più prevista la lettura del dispositivo (o della sentenza in forma breve)  in udienza, imposta appunto dal primo comma dell’art. 429  c.p.c.

4.C. Il mezzo di impugnazione previsto per la sentenza è il reclamo avanti la Corte d’Appello :  scelta curiosa dal punto di vista tecnico se consideriamo che l’art. 702-quater c.p.c. ha optato per l’appello avverso la ordinanza di primo grado e qui, con una inversione delle formule tradizionali,   si opta per il reclamo avverso la sentenza.
Gli effetti pratici della qualificazione non paiono tuttavia particolarmente rilevanti.
Il termine è di trenta giorni dalla comunicazione o dalla notificazione e solo in assenza di comunicazione o notificazione (cioè, quasi mai) si applica il termine lungo di 6 mesi.
Il giudizio procede secondo i termini fissati per il giudizio di opposizione (udienza non oltre 60 giorni dal deposito; notifica entro 30 giorni dall’udienza; costituzione 10 giorni prima dell’udienza).
Quanto alle preclusioni la norma dell’art. 437 c.p.c. subisce un piccolo allentamento, peraltro già ammesso dalla giurisprudenza: sono ammessi  nuovi mezzi di prova e nuovi documenti  non solo quando il collegio “li ritiene indispensabili ai fini della decisione” (come già previsto dall’art. 437 c.p.c.) ma anche quando “la parte dimostri di non aver potuto proporli in primo grado per causa ad essa non imputabile”: il che, anche in relazione alla forte accelerazione imposta al giudizio dall’abbreviazione del termine di decadenza ex art. 32 L. 183/10 (da 270 a 180 giorni)  potrà consentire la proposizione di istanze istruttorie o la produzione documentali che il lavoratore possa dimostrare essere risultata particolarmente difficile nei limiti temporali di cui sopra.
Inutile commentare infine la norma che imporrebbe alla Cassazione, investita del ricorso avverso la decisione della Corte d’Appello, di fissare udienza entro sei mesi dalla proposizione del ricorso: come si possa passare dagli odierni due/tre anni a 6 mesi “senza nuovi oneri a carico della finanza pubblica” come prescrive il comma 69) è il  famoso terzo mistero di Fatima.

5. I limiti oggettivi e temporali del giudizio.
Come si è visto, l’intera procedura qui descritta attiene a tutte e solo le “controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’art. 18 L. 300/70  anche  quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro”.
Si tratta quindi di tutte le controversi disciplinate dall’art. 18 SL ivi compresi dunque i “licenziamenti economici” nei quali non è in gioco la reintegrazione nel posto di lavoro e ivi compresi i licenziamenti collettivi per i quali il nuovo comma 3 L. 223/91 (come sostituito dal comma 46 della L. 92/12) fa comunque riferimento alle conseguenze ex art. 18 SL, se pure con effetti più o meno estesi a seconda dei casi.
Apparentemente delicato si presenta il caso di domanda principale inerente le conseguenze di cui all’art. 18 SL e domanda subordinata ex art. 8 L. 604/66, essendo impensabile che il lavoratore debba proporre un secondo giudizio invocando la stabilità obbligatoria,  dopo che nel primo sia stata eventualmente accertata l’inesistenza dei requisiti dimensionali per la stabilità reale.
Viene in soccorso in proposito il comma 48 a norma del quale “non possono essere proposte domande diverse da quelle di cui al comma 47…, salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi”: poiché indubitabilmente la domanda ex art. 8 L. 604/66 è fondata sui medesimi fatti costituitivi (il licenziamento e le ragioni della sua illegittimità) non vi è dubbio che la domanda subordinata potrà essere proposta e che pertanto il “rito accelerato” potrà anche concludersi con una mera condanna al pagamento della relativa indennità.
Parimenti logico dovrebbe essere la proposizione in giudizio, sempre in via subordinata, anche della domanda di pagamento del TFR,  della indennità di preavviso e dei ratei di fine rapporto, trattandosi di domanda anch’essa fondata sull’identico fatto costitutivo, cioè la avvenuta risoluzione del rapporto ad iniziativa del datore di lavoro.
D’altra parte, una diversa soluzione condurrebbe ad una ingestibile moltiplicazione dei procedimenti e a un probabile diniego sostanziale di giustizia per i dipendenti che intendano azionare il loro diritto di credito, spesso – in periodi di crisi – altrettanto rilevante del diritto alla stabilità del rapporto:   consideriamo infatti che l’obbligo di riservare alla trattazione delle controversie sui licenziamenti “particolari giorni nel calendario delle udienze” (comma 65) condurrà ad un inevitabile  slittamento delle cause aventi oggetto diverso, sicchè il lavoratore vedrà probabilmente esaminata la sua domanda di pagamento a mesi e mesi (se non anni) di distanza dal deposito del ricorso.
Quanto alla ipotesi di risoluzione delle “questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro” la norma non lascia spazio a interpretazioni : l’accertamento della natura subordinata del rapporto, qualora sia il presupposto per l’applicazione dell’art. 18 SL si compie nel giudizio ex commi 48 – 68,  ove pertanto – come si è detto – il Giudice dovrà farsi carico, anche nella prima fase,  di tutti gli accertamenti necessari.
Più delicato è il contenuto della statuizione conseguente: posto che la scelta del rito dipende dal contenuto della domanda e non della decisione, non pare potersi dubitare che, qualora il giudice ritenga accertata la natura subordinata del rapporto e non accertata l’illegittimità del recesso, l’ordinanza conclusiva della prima fase potrà e dovrà avere come contenuto la sola prima questione.
Ma potrà avere come contenuto anche le eventuali conseguenze retributive di detto accertamento  (in parole povere: la condanna al pagamento delle somme dovute in forza della diversa qualificazione del rapporto e della applicazione del CCNL) ? A parte – ancora una volta – evidenti esigenze di razionalità e economia dei giudizi, la risposta sembra comunque anche in questo caso poter essere positiva: se infatti è proponibile con il rito speciale la “questione relativa alla qualificazione del rapporto” (cioè – normalmente – la questione della subordinazione) allora anche le conseguenze retributive sono “fondate sugli identici fatti costitutivi” (cioè le modalità di svolgimento del rapporto) e dunque potranno essere azionate nel medesimo giudizio.
Quanto infine ai limiti temporali del giudizio, manca nella legge una disciplina transitoria: il che può suscitare problemi per quanto riguarda la  disciplina sostanziale
(ma sul punto si veda il commento di ….) ma non dovrebbe suscitare dubbi in ordine alla applicabilità del rito, che sarà disciplinato dal tradizionale principio tempus regit actum: dunque nuovo rito, in tutte le sue fasi, solo per i giudizi introdotti dal 18 luglio 2012 in poi, anche se riferiti a licenziamenti precedenti; per questi, poi, troverà applicazione ancora il termine di decadenza di 270 giorni, applicandosi la riduzione a 120 solo ai licenziamenti intimati successivamente al 17 luglio  2012.
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Naturalmente oltre al quadro interpretativo che si è qui sommariamente tentato di delineare, ve n’è un altro, che porterebbe a conseguenze a dir poco catastrofiche:  rigida limitazione del giudizio ex comma  49 alle sole domande di impugnazione del licenziamento ex art. 18 SL; conseguente duplicazione dei giudizi per la proposizione delle domande connesse, con udienze posticipati a scadenze bibliche e nuovo pagamento del contributo unificato; prima fase limitata  a una cognizione sommaria; conseguente inevitabile opposizione per ottenere una cognizione piena (cui ogni cittadino ha diritto) e conseguente duplicazione del giudizio, con doppio pagamento del contributo unificato da parte del lavoratore non esente; eventuale cumulo della prima restrizione con la seconda,  con conseguente triplicazione del giudizio: uno per avere la cognizione sommaria sul licenziamento, uno per avere la cognizione piena sul licenziamento, un terzo per azionare gli eventuali ulteriori diritti.
Se così fosse, una riforma apparentemente mossa dall’appezzabile intento di garantire pronunce celeri sul licenziamento si rivelerebbe un vero e proprio disastro. Non ci resta che incrociare le dita.

10.7.2012  Alberto Guariso

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