LA SENTENZA CGUE SULLE PRESTAZIONI SOCIALI AI MIGRANTI: L’ITALIA DEVE CAMBIARE ROTTA – avv. Alberto Guariso

La sentenza 21.6.17 della Corte di Giustizia Europea (caso C-448/16)  impone alcune riflessioni di qualche rilievo in un momento di massima attenzione al tema dell’immigrazione.

La vicenda è presto spiegata. Una signora equadoregna, madre di tre figli e titolare di un permesso di soggiorno per motivi di famiglia,  chiede al Comune di Genova di riconoscerle l’assegno famiglie numerose previsto dall’art. 65 L. 488/98 (80 euro al mese fino al compimento dei 18 anni)  nonostante la  legge nazionale riservi tale prestazione ai soli cittadini italiani, europei o stranieri con permesso di soggiorno di lungo periodo.

La richiesta si fonda sul fatto che la direttiva UE 2011/98 prevede che i cittadini titolari di un permesso di soggiorno che consente di lavorare (come il permesso per famiglia o quello per lavoro, oggi denominati “permesso unico lavoro”) hanno diritto alla parità di trattamento nelle prestazioni “di sicurezza sociale” previste dal  Regolamento CE 883/04. Secondo il Comune di Genova e l’INPS (che è il soggetto tenuto al pagamento dopo che il Comune ha accolto la domanda) benefici come l’assegno famiglie numerose non potrebbero essere qualificati come prestazioni di sicurezza sociale secondo il diritto comunitario,  in quanto si tratta di prestazioni assistenziali gravanti sulla fiscalità generale e non connesse alla titolarità, attuale o pregressa,  di un rapporto di lavoro. Insomma le due amministrazioni affermano che, se proprio parità deve essere, deve riguardare solo i lavoratori in senso stretto e solo per le prestazioni derivanti dai loro versamenti contributivi.

La Corte d’Appello di Genova, non essendo certa della soluzione da dare alla questione, decide di investire la Corte Europea per chiedere se la norma nazionale sia davvero in contrasto con la direttiva dell’Unione.

E la risposta della giustizia comunitaria è affermativa: secondo la Corte Europea  tutte le prestazioni sociali che vengono erogate sulla base di requisiti predeterminati (come il numero di figli ed il reddito) senza valutazione discrezionale della pubblica amministrazione, sono ad ogni effetto “prestazioni di sicurezza sociale”, indipendentemente dalle modalità di finanziamento e dal collegamento con un rapporto di lavoro. Conseguentemente, in quanto prestazioni di sicurezza sociale, soggiacciono al principio di parità di cui si è detto e  tutti gli stranieri titolari di un “permesso unico lavoro”, siano essi lavoratori effettivi o no,  ne devono poter fruire a parità di condizioni con in cittadini italiani.

Gli effetti economici di questa decisione non sono da poco.

Difficile ovviamente sapere quanti sono i cittadini stranieri residenti in Italia con almeno tre figli e reddito ISEE inferiore al limite di legge (circa 9000 euro ISEE) che potranno accedere al beneficio a seguito della sentenza. Tuttavia si può considerare che allorchè la L. 97/13 aveva esteso ai lungosoggiornanti la prestazione originariamente prevista per i soli italiani, il Parlamento aveva stanziato per questa estensione 31,41 milioni di euro l’anno. Tenendo conto che gli attuali non-lungosoggiornanti sono circa il 70% dei lungosoggiornanti di allora (1.520.000 contro 2.147.000) si può facilmente ipotizzare che anche il nuovo costo sarà circa il 70% di quello di allora, cioè circa 22 milioni l’anno.

Va poi considerato che la sentenza della Corte Europea ha effetti anche sugli altri benefici che hanno caratteristiche analoghe a quella dell’assegno famiglie numerose e che l’ordinamento italiano continua a riservare ai soli lungosoggiornanti (oltre  ad altri gruppi di stranieri meno numerosi: titolari di protezione internazionale e familiari di comunitari): si tratta del “bonus bebe” introdotto da Renzi nel 2015 (80 o 160 euro al mese per i primi 3 anni di vita del bambino), dell’assegno di maternità per donne disoccupate (1.600 euro una tantum) , del premio alla nascita introdotto nel 2017 (800 euro una tantum) e persino delle prestazioni contro la povertà (il cosiddetto “sostegno all’inclusione attiva”).

Se l’Italia, come è presumibile, dovrà allinearsi ai principi enunciati nella sentenza anche per questi istituti (o per alcuni di essi) il conto diventerà piuttosto salato.

La vicenda sollecita una riflessione sul ruolo dell’Europa nel determinare le politiche sociali.

Potrebbe sorprendere che le istituzioni comunitarie – che si apprestano, con le ormai prossime modifiche alla disciplina dell’asilo,  a alzare un inaccettabile muro all’afflusso di richiedenti – abbia varato nel 2011una direttiva dagli  effetti cosi egualitari  nei confronti dei migranti “regolari”, parificando alla condizione di “lavoratori” tutti coloro che hanno un permesso di soggiorno che consente di lavorare. E che tali effetti siano consapevolmente voluti lo si legge nelle premesse della direttiva, ove si afferma che “l’Unione europea dovrebbe garantire l’equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi che soggiornano regolarmente nel territorio degli Stati membri” e che “una politica di integrazione più incisiva dovrebbe mirare a garantire loro diritti e obblighi analoghi a quelli dei cittadini dell’Unione”.

Dunque una Europa schizofrenica, impaurita e “buonista” al tempo stesso ?

In realtà il punto è un altro. Ed è che assieme alla paura spesso irrazionale del migrante in arrivo sul barcone c’è, nella vecchia Europa, una consapevolezza che l’Italia ha invece rimosso da anni, almeno da quando, abolendo di fatto il “decreto  flussi”, ha  chiuso le frontiere alla cosiddetta “migrazione economica”.

E’ la consapevolezza non tanto (o non solo) che gli immigrati “servono”, ma che serve l’uguaglianza: serve a  evitare emarginazione e conflittualità; serve a garantire la coesione sociale e l’affermazione di quei valori di solidarietà che hanno costituito la trave portante dell’Europa; e serve, su un piano più strettamente economico, a garantire l’altro valore cardine dell’Europa, cioè  la mobilità  (ci si sposta più facilmente dove si sa di non essere trattati come ospiti di serie B)  consentendo che anche la “risorsa immigrati” si collochi là dove  vi sono opportunità di lavoro, sgravando cosi il welfare dal peso dell’assistenza.

Certo alla mobilità dei cittadini non comunitari all’interno dell’Unione manca un tassello fondamentale  cioè un  permesso unico europeo che consenta di spostarsi liberamente da un paese all’altro: i singoli Stati membri continuano, forti della previsione del Trattato, a considerare loro esclusiva competenza la determinazione del numero di stranieri ammessi sul territorio.

Ma anche in assenza di questo tassello, un elevato grado di uguaglianza nell’accesso al welfare può giocare un ruolo fondamentale  nella ridistribuzione efficiente della “risorsa migranti”.

E’ in grado il nostro sistema di welfare di reggere l’impatto di un impulso egualitario cosi forte ?.

Tito Boeri segnala ripetutamente (da ultimo in “Populismo e Stato Sociale”, 2017) che la “bilancia dei pagamenti” dell’immigrazione è ampiamente a favore degli “ospiti”: 8 miliardi di contributi versati e solo 3 miliardi restituiti sotto forma di pensioni (poche, stante l’attuale età anagrafica media degli immigrati) e sotto forma di prestazioni sociali (in numero più elevato,  ma non tale da compensare  lo squilibrio di cui sopra).

Col passar degli anni  e l’invecchiamento della popolazione immigrata,  la sproporzione andrà attenuandosi, ma probabilmente in tempi molto lunghi (sempre Boeri segnala che il rientro in patria dell’immigrato anziano spesso non si traduce nel riconoscimento di un trattamento pensionistico, con 300 milioni annui di contributi “stranieri” inutilizzati).

Resta il fatto che la “spinta egualitaria” che proviene dall’Unione, così ben rappresentata dalla sentenza del  21.6.17,  ha comunque nell’immediato un costo e impone anche un ripensamento sui troppo modesti effetti ridistributivi del nostro welfare. Non è un caso – ad esempio – che “l’ordine” della Corte Europea di trovare il citato gruzzoletto per aiutare le famiglie numerose dei migranti a reddito modesto, arrivi proprio nell’anno in cui il governo ha introdotto un sussidio alla maternità senza limiti di reddito (il “premio alla nascita” di 800 euro). Gli effetti di misure di questo genere sono molto discussi: secondo alcuni, una simile erogazione “una tantum”   dovrebbe avere effetti tanto più prossimi allo zero quanto più il reddito della madre è elevato,  sicché, così strutturata,  la misura sarebbe inutile sia rispetto al contrasto alla denatalità (chi ha un reddito di 100.000 euro non decide di partorire se ne ha 800 in più) , sia rispetto alla rimozione di situazioni di bisogno; secondo altri si tratterebbe comunque di un riconoscimento del valore sociale della maternità e paternità che contribuisce a consolidare comportamenti ritenuti virtuosi.

Certo è che, se si devono fare delle scelte e individuare delle priorità, meglio  orientarsi in primo luogo su terreni meno incerti e dai più scuri effetti ridistributivi e di contrasto al bisogno.

Il “ce lo dice l’Europa” è una espressione spesso abusata e stiracchiata a destra e a manca, ma in questo caso è davvero pertinente. La scelta del legislatore italiano di escludere dal welfare il 40% dei migranti (tutti quelli senza permesso a tempo indeterminato) non regge  più; è illogica e contraria alle regole che l’Unione si è data. Piaccia o no, occorre una inversione di rotta.

 

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