DOPO IL BONUS BEBÈ ANCHE IL SIA ESCLUDE GLI STRANIERI NON LUNGOSOGGIORNANTI
di Alberto Guariso

1.Prenderanno il via il 2 settembre 2016 le domande di accesso alla nuova prestazione di contrasto alla povertà denominata “sostegno all’inclusione attiva” (SIA), istituita con il Decreto interministeriale 26 maggio 2016 (pubblicato sulla GU solo il 18.7.2016).

La misura è complessa e per certi versi originale e merita quindi un’analisi approfondita. Al momento, ci si limiterà ad evidenziare l’impatto che la nuova misura è destinata ad avere sulla condizione degli “immigrati poveri”, in conseguenza dei limiti di accesso previsti per i non-cittadini.

Rinviando quindi per una descrizione dell’istituto alla pagina del sito del Ministero del Lavoro va solo sinteticamente ricordato che il SIA è, in concreto, la “Carta SIA”, ovvero una carta di credito che consente l’acquisto di beni di prima necessità e si configura come una estensione della “carta acquisti sperimentale” istituita con l’art. 60 DL 5/2012 conv. in L. 35/2012, che costituiva a sua volta un’evoluzione della carta acquisti ordinaria (sussidio limitato agli ultrasessantacinquenni e ai genitori di bimbi di età inferiore a tre anni) di cui all’art. 81, comma 32 dl 112/2008 convertito in L. 133/2008.

Rispetto alla carta acquisti sperimentale, la legge di stabilità 2016 (L. 208/15) aveva previsto, all’art. 1, comma 387, una generalizzazione a tutto il territorio nazionale quale primo passo verso l’attuazione di un “Piano nazionale di lotta alla povertà”, per ora solo preannunciato nella stessa legge di stabilità (al comma 386) e che, nelle intenzioni del Governo, dovrebbe prevedere anche una sorta di generalizzato reddito di cittadinanza.

La nuova prestazione fa propria un’impostazione già ipotizzata per la carta acquisti sperimentale, che tuttavia ha avuto, a quanto risulta, scarsissima applicazione: la prestazione viene erogata solo a fronte della adesione del beneficiario a un “progetto personalizzato di attivazione sociale e lavorativa” predisposto e gestito dai Comuni, cui spetta uno stretto controllo sul rispetto del progetto che potrebbe anche portare, in caso di inadempimento del beneficiario, alla revoca della prestazione.

Quanto alle modalità di richiesta ed erogazione, il metodo è quello già sperimentato per altre prestazioni: domanda presentata ai Comuni, verifica dei requisiti da parte dei Comuni stessi, successiva erogazione da parte dell’INPS.

Ma veniamo ai beneficiari.

La carta acquisiti sperimentale era già nata sotto pessimi auspici, essendo originariamente riservata ai soli cittadini italiani e poi estesa, con la legge di conversione del DL 5/12, ai cittadini UE e agli stranieri lungosoggiornanti.

Nel settembre 2013, nel momento in cui la legge europea 2013 aveva dovuto estendere alle categorie di stranieri (allora) protetti dal diritto UE alcune prestazioni sociali, il Governo – reso edotto anche dal vasto contenzioso giudiziario che si era sviluppato sul punto – aveva dovuto prendere atto che tali categorie sono (quantomeno) le seguenti: lungosoggiornanti, titolari di protezione internazionale, familiari stranieri di cittadini comunitari. A questi, si sono poi aggiunti, dal 25.12.2013 (termine ultimo per il recepimento della direttiva 2011/98) i titolari di permesso unico lavoro.

Dimenticando tutto ciò, il Governo e il Parlamento quando, un anno dopo, hanno varato l’assegno di natalità di cui all’art. 1, comma 125 L. 190/14 hanno inserito tra i beneficiari i soli cittadini dell’Unione e i lungosoggiornanti ed ora, per il SIA, hanno stilato un elenco ancora diverso e altrettanto incompleto: cittadini dell’Unione; stranieri lungosoggiornanti; familiari di cittadini comunitari. Per tutti è poi richiesto il requisito della residenza nel territorio nazionale da almeno due anni, da computarsi alla data della domanda.

Sono dunque esclusi i titolari di protezione internazionale (i quali quindi, paradossalmente, accedono alla carta acquisiti ordinaria, ma non alla carta SIA) e sono esclusi i titolari di permesso unico lavoro, cioè gli stranieri titolari di un permesso che consente di lavorare tutelati dalla direttiva 2011/98.

Tali esclusioni meritano alcune riflessioni, sia di ordine politico che di ordine giuridico.

2. Sul piano delle politiche generali di contrasto alla povertà, molto ci sarà da riflettere sulla complessità dell’ipotizzato scambio tra prestazione e progetto di inserimento, che potrebbe avere la positiva funzione di incentivare il beneficiario verso un percorso di autonomia, ma che carica i Comuni di una funzione di controllo di grande complessità e delicatezza per la quale molti servizi sociali sembrano scarsamente preparati e dotati di risorse. Il rischio è quello di trasformare i servizi sociali più in “controllori” ai fini della erogazione che sostegno nel percorso di inserimento. Senza trascurare poi la significativa corrente di pensiero tra gli economisti dello sviluppo che dubita fortemente dell’utilità di queste forme di scambio e cerca di dimostrare, dati alla mano, che gli interventi di welfare più idonei ad attivare il beneficiario sono quelli che vengono erogati senza richiedere in cambio nulla.

Tornando al nostro tema, il decreto muove evidentemente dal presupposto che lo straniero “ordinario” (quello cioè che non ha ancora conseguito il permesso di lungo periodo: e si tratta del 45% degli stranieri) non può essere migrante e povero allo stesso tempo: se in condizioni di povertà assoluta, è destinato inevitabilmente a perdere il titolo di soggiorno e dunque ad andarsene: dunque il migrante povero…non esiste ed è quindi inutile occuparsene.

Ovviamente tutti sanno che non è così: molti stranieri, alternando periodi di disoccupazione e periodi di lavoro precario a bassissimo salario (nella logistica, nelle pulizie, nel lavoro domestico etc.) rimangono legittimamente sul nostro territorio per decine di anni, senza mai poter accedere al permesso di lungo periodo; o per carenza di reddito (come noto per accedere al permesso è richiesto un reddito pari all’assegno sociale) o, più spesso, per l’impossibilità di accedere ad un alloggio idoneo (l’altra condizione richiesta dall’art. 9 TU immigrazione). Che senso può avere escludere costoro, che sono e restano legittimamente presenti sul nostro territorio, da una misura di contrasto alla povertà?

3. Sul piano giuridico, cioè su quello della legittimità/illegittimità delle esclusioni, poco aiuto ci può arrivare dal diritto nazionale: la scelta che il legislatore aveva fatto nel 1998, con l’art. 41 del TU immigrazione (tuttora vigente) era quella di parificare integralmente – nella fruizione delle prestazioni assistenziali – lo straniero regolarmente soggiornante all’italiano alla sola condizione di un titolo di soggiorno di durata non inferiore all’anno.

Scelta dunque fortemente egualitaria, ma pur sempre contenuta in legge ordinaria, che ben può essere modificata da legge successiva che, con riferimento all’una o all’altra prestazione assistenziale, potrebbe legittimamente prevedere requisiti più restrittivi, come appunto hanno fatto le norme sulla carta acquisiti sperimentale e poi la finanziaria 2016.

Le questioni rilevanti si pongono dunque esclusivamente in rapporto al diritto europeo.

Nessun dubbio circa l’assoluta illegittimità della esclusione dei titolari di protezione internazionale. L’art. 29 della direttiva 2011/95 prevede per i titolari di protezione internazionale il diritto di accedere alle prestazioni sociali “alla stregua dei cittadini” dello Stato ospitante (e dunque con vincolo di assoluta parità), con la facoltà dello Stato membro di limitare l’assistenza alle sole prestazioni essenziali per i titolari di protezione sussidiaria (e non per i titolari dello status di rifugiato). A prescindere dalla qualifica del SIA come essenziale o meno, lo Stato italiano, in sede di recepimento della direttiva, non si è comunque avvalso della facoltà di limitazione, sicché rifugiati e titolari di protezione sussidiaria sono oggi parificati ai fini in questione.

Ne consegue che il titolare di protezione internazionale deve poter godere, “alla stregua” del cittadino, anche del SIA.

Tra l’altro, va notato che analoga “dimenticanza” era contenuta anche nelle norme sull’assegno di natalità, ma l’INPS ci ha messo una pezza con la circolare 93 dell’8.5.2015 allorché ha chiarito – operando autonomamente quell’adeguamento al diritto europeo che invece si ostina a non voler fare con riferimento ad altre direttive – che i titolari di protezione internazionale hanno comunque diritto alla prestazione, essendo – cosi dice la circolare – “equiparati” ai cittadini italiani.

A un anno di distanza da quella affermazione, i titolari di protezione non sono più “equiparati” : inspiegabilmente la circolare INPS n. 133 del 19.7.2016 – che da attuazione al SIA – non opera alcuna correzione della omissione governativa, sicché rifugiati e titolari di protezione sussidiaria restano esclusi dalla nuova prestazione.

La scelta è assolutamente miope se si considera che, proprio nel delicato momento di uscita dal sistema di protezione a seguito dell’accoglimento della domanda, il rischio povertà è elevatissimo e la necessità di un sostegno nel percorso di inserimento particolarmente stringente.

Ma prima ancora che miope, la scelta è del tutto illegittima ed esporrà l’INPS all’ennesimo inevitabile contenzioso volto a ottenere il rispetto del diritto comunitario.

4. Quanto invece alla esclusione dei titolari di permesso unico lavoro il discorso è più delicato.

Ai sensi degli artt. 3 e 12 direttiva 2011/98, godono del diritto alla parità tutti i cittadini di paesi terzi titolari di un permesso che consente di lavorare (cioè in pratica di un permesso per lavoro, o per attesa occupazione, o per famiglia) ma tale diritto trova applicazione solo per quanto riguarda i “settori di sicurezza sociale di cui al Regolamento UE 883/04” (così l’art. 12).

I settori di sicurezza sociale cui si applica il Regolamento sono elencati nell’art. 3 del Regolamento stesso e comprendono – secondo la giurisprudenza CGE – anche le prestazioni non contributive che vengono attribuite sulla base di criteri predeterminati, senza valutazione discrezionale della PA: il SIA possiede senz’altro tali requisiti.

Tuttavia tra i settori indicati nell’art. 3 non sono comprese le misure di contrasto alla povertà. Si potrebbe quindi sostenere che il SIA non rientri tra le prestazioni incluse nel Regolamento 883 e conseguentemente tra le prestazioni “coperte” dal vincolo di parità di cui all’art.12 della direttiva 2011/98.

In realtà, verificando più analiticamente gli ulteriori requisiti per accedere al SIA, si apprende che, in attesa del famoso reddito di cittadinanza generalizzato, il SIA non costituisce affatto una misura di generico contrasto alla povertà, giacché viene oggi erogato solo a condizione che il nucleo famigliare del beneficiario rientri in almeno una delle seguenti categorie:

presenza di almeno un minore di anni 18;
presenza di un disabile (definito secondo la classificazione di cui al decreto ISEE)
presenza di una donna in gravidanza (per la quale la data presunta del parto non sia successiva alla data della domanda di più di 4 mesi)

Non solo, ma come precisa la sintesi del Ministero (si veda ancora la nota sul sito), il sistema di punteggio previsto per l’attribuzione del beneficio favorisce “i nuclei con il maggior numero di figli minorenni, specie se piccoli (età 0-3); in cui vi è un genitore solo; in cui sono presenti persone con disabilità grave o non autosufficienti”.

Se è così, è agevole concludere che il SIA rappresenta – nel caso sub a) e forse anche in quello sub b) – una “prestazione familiare”, per tale dovendosi intendere “tutte le prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari..” (così l’art. 1 lettera z del Regolamento 883) e nel caso sub c) una “prestazione di maternità”.

Sia le prestazioni familiari che le prestazioni di maternità rientrano pienamente nell’elenco di cui all’art. 3 del Regolamento 883; conseguentemente ad esse si applica il vincolo di parità di cui all’art. 12 direttiva.

Dunque, nel rispetto del diritto europeo, il SIA dovrebbe essere esteso a tutti i titolari di permesso unico lavoro tutelati dalla direttiva 2011/98.

5. A prescindere da tali considerazioni in punto di diritto europeo – alle quali l’INPS già in altre occasioni ha mostrato di essere poco sensibile e che dunque difficilmente potranno trovare spazio se non nelle aule giudiziarie – c’è piuttosto da rimarcare un profilo di assoluta irragionevolezza della esclusione, sul quale convergono considerazioni di ordine sia politico che giuridico, dal momento che una esclusione irrazionale è per sua natura in contrasto con il principio di uguaglianza ex art. 3 Cost.

Il DM fissa il limite ISEE per l’accesso al SIA in euro 3.000. Il limite di reddito per accedere al permesso di lungo periodo è pari all’assegno sociale e dunque oggi è pari a euro 5.824,91, aumentato in caso di familiari.

Ora, è ben vero che i due criteri di misurazione (ISEE e reddito) non sono omogenei, ma è altamente probabile che uno straniero, se ha conseguito il permesso di lungo periodo, disponga di un reddito superiore ai limiti (molto bassi) necessari per accedere alla carta SIA, anche quando rimane comunque in una condizione reddituale prossima alla povertà.

Dunque la previsione precipita nuovamente gli stranieri (e solo gli stranieri: per gli italiani il problema ovviamente non si pone) in quel circuito infernale già denunciato dalla Corte Costituzionale a proposito della pensione di inabilità: caro migrante, ti darei volentieri un aiuto per contrastare la povertà se tu avessi quel titolo di soggiorno; ma siccome hai conseguito quel titolo di soggiorno vuol dire che non sei effettivamente povero e quindi non te lo do.

Una beffa da finto Robin Hood che potrebbe addirittura far sorridere: se non rendesse manifesta l’irragionevole scelta politica di introdurre (lo si ripete, per i soli stranieri e qui sta l’aspetto discriminatorio) forme di aiuto contro la povertà che presuppongono la titolarità di un reddito minimo, escludendo così dall’aiuto proprio i soggetti più bisognosi e immaginando che l’aiuto alla povertà possa partire “dai 5.824,91 euro in su”.

Scelta poi ancora più illogica se si considera che non potrebbe neppure essere giustificata con l’abusato argomento del “radicamento territoriale”, che vorrebbe selezionare i beneficiari di prestazioni solo tra coloro che manifestano una seria intenzione di restare sul nostro territorio o che magari già si sono guadagnati, con periodi adeguati di lavoro, il diritto alla prestazione. Nel caso del SIA, il secondo argomento non ha ragione di essere perché introdurre un profilo di “corrispettività” nel contrasto alla povertà sarebbe una contraddizione in termini (il povero assoluto normalmente è tale proprio perché non ha potuto lavorare con continuità). Quanto al primo argomento, il SIA già introduce un requisito di due anni di pregressa residenza sul territorio che, ai fini del radicamento, costituisce già un requisito ben più ampio di quello scelto dal legislatore nel 1998.

In conclusione la scelta di introdurre in questa materia il requisito del permesso di lungo periodo è del tutto irrazionale ed è destinata a finire a breve davanti alla Corte Costituzionale.

Così ancora una volta, forse per insipienza, forse per scelta consapevole, la questione dell’accesso degli stranieri al welfare resterà affidata ai giudici, con buona pace della certezza del diritto, della trasparenza dell’azione pubblica e della declamata scelta di perseguire quella coesione che presuppone la chiarezza del patto sociale e non la moltiplicazione del contenzioso.

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